Elementi di psicologia e pedagogia dell età evolutiva pdf

PSICOLOGIA DELL'ETÀ EVOLUTIVA

. È la disciplina che si occupa dello sviluppo dei diversi aspetti della personalità e delle varie forme di comportamento nel periodo che va dalla nascita sino al termine dell'adolescenza. Essa si è costituita come disciplina indipendente sia dalla p. generale che dalla pedagogia solo alla fine del secolo scorso.

Può sembrare strano che, mentre già dall'antichità classica è stato affrontato il problema di come educare il bambino, siano trascorsi molti secoli prima che venisse considerato il problema complementare, quello cioè di ottenere con metodi scientifici una conoscenza adeguata del bambino, del modo in cui si sviluppa, dei fattori che condizionano tale sviluppo. Questa discrepanza è dovuta alla convinzione, ancor oggi piuttosto diffusa, che si possa facilmente giungere per via intuitiva a una buona conoscenza del bambino, dato che "siamo stati noi stessi bambini" o "possiamo osservare continuamente dei bambini, nella casa o nella scuola". L'insufficienza di questa convinzione risulta però evidente non appena si riflette su alcuni fatti di cui la ricerca psicologica moderna ci ha reso consapevoli, come l'assenza o il carattere assai lacunoso dei ricordi relativi ai primi anni di vita, l'esistenza di processi (rimozione, razionalizzazione, ecc.) che operano nel senso d'impoverire o deformare i ricordi di molte esperienze dell'infanzia o della fanciullezza, il carattere ormai automatizzato di certe operazioni mentali o nozioni presenti nell'adulto, che c'impedisce di vederne la complessità e di ricordare il tempo in cui esse non erano ancora da noi dominate, l'esistenza di forti differenze individuali che rende illegittima ogni generalizzazione di esperienze personali, la difficoltà, nell'osservare i bambini, di cogliere la vera natura di comportamenti o modi di pensare ancora fluidi e scarsamente strutturati evitando di proiettare su di essi gli schemi tipici della razionalità adulta, la difficoltà di vedere certi rapporti di dipendenza fra esperienze compiute alle prime età e atteggiamenti o comportamenti che si manifestano molti anni dopo.

Chi si rese chiaramente conto per primo della difficoltà di cogliere solo per via intuitiva il mondo psichico del bambino fu lo psicologo americano G. Stanley Hall, che avviò ricerche sistematiche volte a raccogliere il maggior numero di dati sulle attività, gli atteggiamenti, le convinzioni, i modi di pensare e di sentire generalmente presenti nei bambini e negli adolescenti. Queste ricerche furono condotte tra la fine del secolo scorso e l'inizio di questo, mediante procedimenti ancora imprecisi consistenti in una sorta di "osservazione indiretta" del bambino; gli studiosi, cioè, utilizzavano in larga misura i ricordi d'infanzia di soggetti adulti o le osservazioni che genitori o insegnanti avevano compiuto sui loro figli o allievi. Un metodo analogo fu usato anche da Freud, le cui tesi sullo sviluppo affettivo ed emotivo durante l'infanzia e sulle fasi della sessualità infantile furono appunto elaborate quasi esclusivamente sulla base di elementi ottenuti attraverso l'analisi di soggetti adulti.

Queste prime ricerche sistematiche permisero anche di porre con chiarezza il problema teorico del significato che l'infanzia e l'adolescenza hanno nella vita umana, ove occupano un periodo comparativamente ben più lungo di quello riscontrabile presso gli animali. Lo stesso G. Stanley Hall propose un'interpretazione generale di tipo evoluzionistico: durante l'infanzia e l'adolescenza l'individuo attraverserebbe, per quanto riguarda le funzioni psichiche, le tappe principali attraversate dalla specie umana nel corso della sua evoluzione (analogamente a quanto accade, per ciò che riguarda la struttura fisica, nello sviluppo dell'embrione). Altri autori (per es. E. Claparède, fondatore nel 1912 di uno dei primi centri per lo studio psicologico del bambino, l'Istituto Rousseau di Ginevra) hanno invece sottolineato la straordinaria complessità della vita mentale dell'uomo, che può dispiegarsi pienamente solo attraverso lunghi anni di maturazione e di esperienze.

La presa di coscienza delle debolezze metodologiche di queste prime ricerche e la necessità di considerare con maggior precisione il comportamento infantile portarono, soprattutto fra il 1920 e il 1935, all'impiego di metodi di osservazione diretta, e abbastanza prolungata nel tempo, di un bambino (il metodo del "diario quotidiano"), o di un numero limitato di bambini. Ne sono derivati studi più attendibili, centrati su particolari aspetti dello sviluppo (per es., W. Stern studiò lo sviluppo del linguaggio, G. H. Luquet quello dell'attività grafica, J. Piaget le prime forme dell'intelligenza, l'attività imitativa, il gioco), o riguardanti tutti gli aspetti fondamentali dello sviluppo (come nelle sistematiche osservazioni di A. Gesell). Una terza fase si è delineata quando la necessità d'interpretare i comportamenti osservati e d'identificarne i fattori causali ha indotto a dare alle ricerche una veste quantitativa più precisa. Questo in certi casi ha reso possibile lo studio delle correlazioni esistenti fra più processi, fra loro contemporanei (per es.: grado di forza fisica e posizione più o meno centrale in un gruppo di preadolescenti), o separati da un intervallo temporale (per es., esperienza di un'atmosfera iperprotettiva nell'infanzia, e difficoltà di autonomia nell'adolescenza); in altri casi ha permesso d'impostare indagini a carattere nettamente sperimentale, con sistematica modificazione delle condizioni entro le quali si verifica un evento (per es., modificazione della frequenza con cui vengono compiute delle letture a vari gruppi di bambini che stanno imparando a parlare e successivo confronto dei progressi compiuti).

Anche se ricerche sperimentali sporadiche non erano mancate nei periodi precedenti, esse diventano dopo il 1940 la nota dominante, così come divengono sempre più numerosi, in America e in Europa, i laboratori attrezzati per ricerche di questo tipo. In questi ultimi tempi è stata tuttavia avvertita la necessità d'intensificare lo studio di bambini e adolescenti in condizioni "naturali" (approccio etologico), sia pure senza rinunciare alle tecniche che permettono osservazioni e quantificazioni precise.

Le ricerche compiute si raggruppano attorno ad alcuni grandi temi di cui hanno costituito un progressivo approfondimento.

a) Le aree dello sviluppo e la loro interdipendenza. - Benché la personalità costituisca una totalità essenzialmente unitaria, essa si presenta anche come articolata in diverse aree, in base all'omogeneità o eterogeneità qualitativa dei processi che le caratterizzano; a tali aree della vita mentale corrispondono altrettante forme dello sviluppo. Così, accanto allo sviluppo cognitivo (ovvero dell'attività percettiva, delle strutture intellettuali di base, di certe nozioni o di certi aspetti del linguaggio che servono come "organizzatori dell'esperienza") vi è uno sviluppo affettivo e motivazionale (nel senso del costituirsi di rapporti positivi o negativi con persone, o cose, o luoghi, dell'emergere di pulsioni, interessi, avversioni, con vario grado di stabilità); vi è uno sviluppo emotivo (come graduale acquisizione della capacità di dominare tensioni interne, o di posporre nel tempo la soddisfazione di bisogni); e vi è uno sviluppo sociale e morale (inteso come progressivo aumento della capacità di tener conto degli altri, di comunicare con loro, di collaborare o competere lealmente, di accogliere o porre in discussione valori e norme presenti in una comunità).

Si tratta di forme dello sviluppo di cui ognuna è stata oggetto d'indagini specifiche, ma fra le quali esistono anche profonde interrelazioni, che sono state pure studiate. Per es., vi è un rapporto assai stretto fra sviluppo affettivo e sviluppo cognitivo (nel senso che si stabiliscono buoni rapporti affettivi fra il bambino e le persone che con maggiore costanza contribuiscono ad alimentare le sue curiosità, a sviluppare attraverso il colloquio o i racconti le sue capacità linguistiche e la sua attività fantastica), così come vi è uno stretto rapporto fra sviluppo cognitivo e sviluppo sociale (dato che la capacità di collaborare con gli altri presuppone quella di vedere la realtà anche dal loro punto di vista, o di comprendere il senso di una regola, ecc.). Questa tematica è stata affrontata anche su un piano teorico, per es. con gli studi di K. Lewin sull'articolazione della mente in "regioni" con vario grado d'indipendenza funzionale (che hanno ispirato ricerche sulle "azioni sostitutive", sui fenomeni di "saturazione", sulle caratteristiche degli stati emotivi e delle situazioni conflittuali, sulla natura della debolezza mentale), o con l'interpretazione che H. Werner ha dato dello sviluppo mentale come progressivo differenziarsi di funzioni inizialmente fra loro sincreticamente fuse.

b) Le fasi dello sviluppo. - Uno dei risultati più significativi delle ricerche compiute in questi ultimi cinquant'anni è la dimostrazione che il bambino non costituisce affatto "un uomo in miniatura", il cui sviluppo sarebbe solo un processo di crescita quantitativa (semplice aumento del numero delle conoscenze, delle parole utilizzate, delle abilità possedute), ma è invece un essere qualitativamente diverso dall'adulto. L'analisi delle varie fasi che deve attraversare per divenire adulto, e dei momenti di crisi, ovvero di rapido passaggio da una fase alla successiva, ha dunque costituito un altro dei grandi temi affrontati.

Già per quanto riguarda la percezione (considerata come una delle più semplici forme di attività cognitiva) le ricerche sperimentali, se hanno messo in luce certe identità fra il bambino molto piccolo e l'adulto relativamente ai processi percettivi più elementari (percezione del movimento, dei colori, delle forme, della tridimensionalità: sono ben note, a questo riguardo, le ricerche di R. Fantz sulla capacità di bambini di poche settimane di differenziare figure collocate sopra la culla, o quelle di J. J. Gibson sulla percezione della distanza in bambini di pochi mesi), dall'altro hanno evidenziato una differenza notevole, che si attenua solo verso i 5-6 anni. Prima di tale età vi sarebbe una fase caratterizzata da sincretismo percettivo, ovvero da scarsa capacità di passare dalla struttura d'insieme di un oggetto o di una situazione all'identificazione dei suoi elementi costitutivi (per es.: difficoltà di trovare una figura "mascherata" all'interno di una figura più grande, o d'identificare le varie lettere che formano una parola). Il sincretismo si manifesta anche come scarsa capacità di sottrarsi a certe qualità vistose di un oggetto (per es., il suo colore) per giungere a prendere nota di altre qualità meno evidenti, con difficoltà pertanto di scoprire somiglianze fra oggetti vissuti come diversi. Queste caratteristiche della percezione infantile concorrono a rendere difficili prima dei 5-6 anni sia l'apprendimento della lettura e della scrittura sia i processi di concettualizzazione.

L'esistenza di ben definite fasi è stata ampiamente dimostrata per quanto riguarda lo sviluppo delle strutture intellettuali. Un contributo decisivo è stato qui dato dallo psicologo svizzero J. Piaget le cui ricerche (spesso condotte con B. Inhelder) si sono sviluppate per oltre un cinquantennio in modo assai sistematico e hanno caratterizzato la "scuola di Ginevra". Esse hanno permesso d'identificare, fra i 12 e i 18 mesi, la fase dell'intelligenza percettivo-motoria (che presenta forti analogie con quella studiata da W. Köhler nelle scimmie antropoidi e che consiste nel risolvere piccoli problemi ponendo fra loro in rapporto in modo nuovo oggetti già tutti percettivamente presenti: per es., uso di una pantofola come prolungamento di una mano, per estrarre da sotto il letto una palla); la fase dell'intelligenza intuitiva, preoperatoria, fra i 2 e i 6 anni (il bambino si serve ormai anche d'immagini mentali, ma non giunge con facilità a "operare su di esse"; si lascia cioè portare dal flusso delle rappresentazioni ciascuna delle quali ne evoca altre, senza riuscire a dirigerne il corso, a coordinarle, a tenerne contemporaneamente presenti alla mente più di una); la fase del pensiero operatorio concreto, fra i 7 e gli 11-12 anni (il bambino giunge a porre attivamente in rapporto i contenuti di più esperienze e perviene così a certe nozioni spaziali, fisiche, temporali, logiche o numeriche che presuppongono tale coordinamento: si pensi per es. alle nozioni di "misura", o di "causa", o di "frazione"; o al disegno della figura umana o di un paesaggio in cui occorre, mentre si disegna un elemento, tener conto di quelli già disegnati, per rispettare le proporzioni, evitando le incongruenze e deformazioni largamente presenti al livello precedente). Vi è, infine, la fase del pensiero ipotetico-deduttivo, che si dispiega durante la preadolescenza ed è caratterizzato dalla capacità di sviluppare un ragionamento non più solo coordinando aspetti della realtà direttamente constatati, bensì anche partendo da situazioni puramente possibili.

Con lo sviluppo delle strutture intellettuali si ha anche un'organizzazione della vita mentale in diversi "livelli di realtà". Mentre un bambino molto piccolo non giunge a distinguere nettamente fra realtà e fantasia, così come fra mondo fisico e mondo soggettivo (realismo infantile), un ragazzo di 8 o 9 anni distingue ormai con chiarezza i fatti che si collocano al livello della realtà e quelli che sono invece il contenuto di fantasticherie o di desideri; e un preadolescente diviene infine sensibile anche alle diverse gradazioni del carattere di realtà-irrealtà degli eventi (dai fatti assolutamente certi a quelli quasi-certi, o altamente probabili, o poco probabili ma pur sempre possibili, a quelli infine che possono avere esistenza solo sul piano del pensiero).

In rapporto con l'articolazione della vita mentale in diversi piani di realtà si viene attuando anche lo sviluppo emotivo, di cui pure sono state identificate le fasi. Mentre il bambino molto piccolo non giunge a dominare le tensioni che si creano in lui (desideri, impulsi di collera, paure, dolore) e dà ad esse immediato sfogo motorio con azioni aggressive, fuga, o pianto, bambini più grandi divengono capaci di tenere conto degli effetti vicini o lontani che sul piano della realtà possono avere questi comportamenti (mutamento stabile dell'atteggiamento degli altri nei loro confronti, perdita di occasioni favorevoli, ecc.) e pertanto divengono anche capaci di controllare le tensioni emotive, d'incanalarne l'energia in direzioni utili, o socialmente accettabili. Questa capacità si rafforza nella preadolescenza e nell'adolescenza, quando con l'estensione temporale verso il futuro del "piano di realtà" un ragazzo comincia a tener veramente conto, nelle sue scelte quotidiane, anche di eventi che si verificheranno solo parecchi anni dopo, ma vanno preparati o evitati per tempo (questa consapevolezza dei vari effetti lontani delle decisioni prese giorno per giorno può rendere più complesse e difficili le scelte, suscitando nell'adolescente tensioni emotive e situazioni conflittuali anche piuttosto intense).

Le fasi dello sviluppo affettivo sono state studiate con metodo prevalentemente "clinico". È stata analizzata la formazione, durante l'infanzia, dei primi "rapporti oggettuali", soprattutto nei confronti della figura materna (un rapporto di questo tipo si stabilisce quando un bambino giunge a vivere un'altra persona, o anche un oggetto, come un prolungamento e un potenziamento della sua stessa persona, indirizzando su di essi una carica affettiva più o meno intensa); e sono stati analizzati (soprattutto da R. Spitz e da J. Bowlby) gli effetti negativi che la mancanza di una figura materna stabile può avere. Analogamente è stato studiato il costituirsi di rapporti affettivi (positivi o negativi) con altri membri della famiglia, durante una seconda fase che culmina verso i 5 anni con il "complesso di Edipo" descritto da Freud e caratterizzato da un legame affettivo intenso col genitore di sesso opposto, accompagnato da sentimenti di gelosia o di ostilità nei confronti del genitore dello stesso sesso. Altri rapporti affettivi si stabiliscono con adulti estranei all'ambiente familiare soprattutto durante una terza fase corrispondente alla fanciullezza, con fenomeni di attaccamento devoto agl'insegnanti, o di timore nei loro confronti; e, più tardi ancora, con coetanei dello stesso sesso nella forma delle amicizie preadolescenziali, e con i coetanei di sesso diverso quando il risveglio delle pulsioni sessuali porta l'adolescente a ricercare i propri oggetti d'amore al di fuori della famiglia, attenuando temporaneamente i legami affettivi con i genitori e spesso ponendosi in antagonismo con loro (una temporanea svalutazione dei genitori può servire anche come difesa inconscia contro i risorgenti sentimenti edipici).

Lo studio dello sviluppo sociale, infine, ha permesso d'identificare una prima fase in cui la socializzazione ha luogo solo nella forma della graduale assunzione di abitudini o regole presenti nell'ambiente in cui il bambino cresce (ne sono esempi l'apprendimento della lingua materna, o l'accettazione e interiorizzazione di norme proposte o imposte dagli adulti, con graduale formazione del Super-Io). In questa fase, sin verso i 5-6 anni, il bambino è centrato sull'adulto e ha rapporti saltuari con i coetanei, che costituiscono per lui solo degli occasionali compagni di gioco. Durante una seconda fase (fra i 6 e gli 11-12 anni) matura invece la capacità di porsi dal punto di vista degli altri, di collaborare con loro, di elaborare norme fondate sul mutuo consenso, e il bambino stabilisce rapporti di amicizia all'interno di gruppi di coetanei, che sono però ancora in larga misura sotto l'influenza degli adulti. Più tardi, con il conseguimento dell'autonomia intellettuale e il riattivarsi delle pulsioni sessuali, nasce il bisogno di compiere esperienze fuori della famiglia, in gruppi di coetanei ormai largamente indipendenti dagli adulti e formati dapprima da elementi dello stesso sesso (per es.: la "banda" della preadolescenza), e poi da elementi di sesso diverso (le "compagnie" dell'adolescenza).

c) I fattori dello sviluppo. - Un altro grande tema è quello delle condizioni che possono favorire od ostacolare il passaggio da una fase all'altra dello sviluppo. Il fondamentale problema del peso che possono avere l'ereditarietà (e la maturazione automatica) da un lato, e l'ambiente (e l'educazione) dall'altro, è stato affrontato già alla fine del secolo scorso, quando la constatazione delle grandi differenze esistenti fra gli adulti evidenziate dai primi tests mentali ha posto il problema dell'origine di tali differenze. È questo un problema assai arduo, almeno per quanto riguarda la vita psichica, per l'estrema difficoltà di tenere fisso uno dei due fattori modificando l'altro. Tentativi in questo senso sono stati compiuti perfezionando un metodo proposto già da F. Galton, il fondatore della p. differenziale, consistente nello studiare gemelli monozigoti, aventi presumibilmente lo stesso patrimonio ereditario anche a livello psichico, e allevati in ambienti diversi, per constatare quali tratti della personalità restano simili e quali invece si diversificano (i risultati sembrano mostrare, per es., che l'ambiente influisce sull'intelligenza in modo più sensibile che sul "carattere"). Tentativi meno precisi sono stati compiuti anche studiando comparativamente bambini e adolescenti che crescono in culture molto diverse.

Più agevole è stato porre in luce il ruolo che possono avere certe particolari condizioni, più facilmente controllabili. E in generale si è constatato che, per l'una o l'altra delle varie forme dello sviluppo, esistono "periodi aurei" durante i quali una certa condizione favorevole può avere effetti profondi e durevoli, passati i quali essa diviene invece scarsamente efficace. Si è potuto stabilire, per es., che una ricchezza e varietà di stimolazioni percettive durante i primi anni di vita (possibilità di manipolare materiali diversi, di esplorare oggetti di vario tipo e di metterli fra loro in rapporto in molti modi) favorisce lo sviluppo percettivo, affinando la capacità di analisi e permettendo di scoprire in ogni singolo oggetto una molteplicità di proprietà materiali (flessibilità, elasticità, rigidità, durezza, ecc.) e funzionali "può servire a sorreggere, a coprire, ad avvolgere, a collegare, a trasmettere il movimento, ecc."), proprietà che più tardi possono essere più facilmente "vedute" quando, per risolvere un problema, è necessario stabilire rapporti nuovi fra gli oggetti a disposizione.

Analogamente è stato studiato (per es. A. Bandura) il ruolo che la presentazione di modelli di comportamento, e l'attività imitativa che ne consegue, possono avere nel favorire, alle varie età, l'acquisizione di nuovi comportamenti, o di schemi interpretativi della realtà, o di valori e ideali (dalle prime imitazioni di gesti e parole, nell'infanzia, ai tentativi di aderire ai giudizi di un adulto, durante la fanciullezza, alle identificazioni con personaggi reali o della letteratura e della storia, nell'adolescenza).

Sono pure state studiate le molteplici funzioni che il gioco (percettivo-motorio, o simbolico, o con regole) può avere nel favorire, alle diverse età, lo sviluppo della psicomotricità, o dell'attività rappresentativa e della fantasia, o della socialità; nell'assicurare un buon sviluppo affettivo (certi giocattoli assumono il ruolo degli "oggetti transizionali" di cui parla D. Winnicott, sui quali vengono temporaneamente investite cariche affettive che più tardi il bambino trasferirà alle persone); nel garantire un normale sviluppo emotivo, per la possibilità di scaricare ai livelli d'irrealtà, attraverso azioni simboliche o sostitutive, tensioni che potrebbero tradursi in comportamenti inaccettabili sul piano della realtà.

Anche la particolare influenza che il linguaggio può avere sullo sviluppo del pensiero è stata studiata, con ricerche sulla graduale trasformazione di una parte del linguaggio parlato in "linguaggio interiore" (L. S. Vigotsky), sulla funzione che i termini astratti possono avere nella formazione dei concetti (J. Piaget), sul ruolo che una ricchezza di vocabolario o di forme sintattiche può avere nello sviluppo di una visione analitica della realtà (B. Bernstein), e per questa via è stata avviata l'analisi dell'influenza che ambienti culturalmente e linguisticamente più o meno ricchi possono esercitare sullo sviluppo intellettuale.

Un importante problema che ha costituito oggetto d'indagine in questi anni (e che ha un rilevante interesse in campo educativo, per i tentativi d'insegnamento precoce) è poi quello dei rapporti fra apprendimento e sviluppo, ovvero fra l'addestramento specifico a eseguire certi compiti e la maturazione delle strutture intellettuali richieste da tali compiti. Ricerche condotte recentemente dalla Scuola di Ginevra dimostrerebbero che l'addestramento favorisce lo sviluppo di certe strutture mentali solo se queste ultime sono ormai vicine a maturazione, e non ha invece efficacia se esse sono ancora solo in germe.

Con riferimento alla preadolescenza e all'adolescenza sono poi state studiate le condizioni che possono suscitare o aggravare le situazioni conflittuali di cui è densa questa età (per es. mancanza d'informazioni sui fenomeni dello sviluppo fisico, sulle attività sessuali, ecc.), o possono prolungare la posizione di marginalità sociale (per es., atteggiamento iperprotettivo dei genitori), o rendere più o meno drammatico lo scontro con gli adulti (per es. atteggiamento autoritario o democratico, flessibile o del tipo "tutto-o-niente", da parte di un genitore o di un insegnante), o possono ostacolare o facilitare l'accettazione di un giovane in un gruppo di coetanei. E sono state ampiamente analizzate le condizioni che possono portare al comportamento deviante, alla delinquenza giovanile.

La p. dell'età evolutiva presenta profondi legami con discipline fra loro assai diverse. Del tutto evidenti sono quelli con la pedagogia e la didattica, che rendono indispensabile una buona preparazione psicologica degli educatori (insegnanti, o genitori). Rapporti assai stretti esistono anche sia con la p. animale (date le molte analogie fra il comportamento degli animali superiori e quello di bambini molto piccoli), sia con la p. dell'adulto, dato che la vita mentale dell'adulto rappresenta la fase finale e ormai stabile di un lungo sviluppo di cui la p. dell'età evolutiva studia le fasi intermedie.

Proprio il fatto di occuparsi di fasi intermedie dello sviluppo pone poi la p. dell'età evolutiva in rapporto con certi settori dell'antropologia culturale (individui appartenenti a civiltà primitive presentano comportamenti e modi di pensare simili a quelli che si riscontrano in bambini della nostra cultura), e anche con la psicopatologia, dato che la malattia mentale può in molti casi essere interpretata come regressione a fasi intermedie dello sviluppo, o come mancato o incompleto superamento di tali fasi.

Che cosa si intende per psicologia dell'età evolutiva?

È la disciplina che si occupa dello sviluppo dei diversi aspetti della personalità e delle varie forme di comportamento nel periodo che va dalla nascita sino al termine dell'adolescenza.

Quali sono le principali teorie della psicologia dell'età evolutiva?

Queste sei teorie dello sviluppo di cui parleremo da una prospettiva evolutiva sono la Gestalt, la psicoanalisi, il comportamentismo, la psicologia cognitiva, la teoria di Piaget e Vygotskij.

Perché oggi si distingue tra psicologia dell'età evolutiva e psicologia dello sviluppo?

“La psicologia dello sviluppo studia l'evoluzione e lo sviluppo del comportamento umano, dal concepimento alla morte. Si differenzia dalla psicologia dell'età evolutiva, la quale prende in considerazione solo lo sviluppo del bambino. Non è una disciplina applicata, ma è stata oggetto di discussione per molti secoli.

Qual è l'età evolutiva?

evolutiva, età In psicologia, il periodo della vita dell'individuo umano che va dalla nascita al 25°-30° anno e che segna lo sviluppo di una serie di funzioni e processi, da quelli senso-percettivi e motori a quelli intellettivi, affettivi e sociali (➔ psicologia).