(ATTENZIONE! L’articolo contiene immagini forti) Anche all’interno della storia parallela del cinema “proibito”, pochi film godono della fama di visione oscena e scandalosa di Salò o le 120 giornate di Sodoma [1975, Pier Paolo Pasolini]. Se da una parte questa reputazione trova riscontro nella potenza lacerante delle sue sequenze più estreme, dall’altra
appare oggi perfino superiore ai suoi reali meriti (o demeriti): basti pensare alla quantità di immagini orrifiche e agli spettacoli della sofferenza che il paesaggio mediatico propone ogni giorno, generando un vero e proprio trionfo dell’oscenità1. Grazie anche all’eredità di Salò,
ciò avviene persino in ambito cinematografico: oggi si assiste a una continua esplorazione dell’estremo, o perlomeno a una sistematica riduzione dei confini tra il rappresentabile e ciò che invece rimaneva un tempo nel fuoricampo, nel non-detto, nel sottinteso; fenomeno che coinvolge non solo il cinema arthouse o sperimentale (da sempre incline a questo genere di esplorazioni) ma anche produzioni internazionali di grande successo di
pubblico, incapaci di generare lo stesso clamore suscitato da Salò o dagli altri titoli coinvolti in questo speciale sulle ‘visioni proibite’. Pertanto, al di là della dichiarata volontà di Pasolini di esplorare i limiti dello sguardo e della sopportabilità dello spettatore («il nostro
sguardo messo a nudo», scrive Roland Barthes)2, la problematicità di Salò va ricercata nelle pieghe del film; un testo che si sviluppa su diversi piani concettuali e che, pur rimanendo strutturalmente fedele all’originale sadiano, si configura come un vero e proprio film-saggio, conclusione ideale della
riflessione sociopolitica e antropologica dell'(ahinoi) ultimo Pasolini. Una visione proibita, dunque, ché mette a nudo con rara lucidità e senza arretrare di fronte a nulla l’aberrazione di un Potere che assoggetta, manipola e viola i corpi: una metafora potente, dove le caratteristiche di un periodo storico definito dal regista stesso come “nuovo fascismo” vengono trasferite proprio in un’ambientazione d’epoca fascista. Ma visione proibita anche perché la sua
fruizione non può e non deve esaurirsi in una lettura compiuta con gli strumenti della società contemporanea – epoca in cui la deriva da lui denunciata più di quarant’anni fa è ormai insanabile (ma Pasolini sosteneva che già i giovani a lui contemporanei non lo avrebbero capito «perché vivono i nuovi valori con cui i vecchi valori, in nome dei quali io parlo, sono
incommensurabili»)3 – e che non può prescindere da una serie di precisi riferimenti filosofici e letterari suggeriti proprio all’interno del film. BREVI CENNI DI SINOSSI Al di là della
rielaborazione in chiave politica e del trasferimento dell’azione nella Salò degli anni della Repubblica Sociale Italiana, Pasolini mantiene sostanzialmente inalterata la struttura narrativa del romanzo di Sade e, richiamando Dante, articola il film in quattro parti corrispondenti all’Antinferno e a tre gironi infernali. LA PAROLA La supremazia della parola, del racconto orale (o della lettura del regolamento scritto) è un carattere fondamentale del
testo sadiano, e un primo aspetto che merita di essere approfondito. Come infatti evidenzia Roland Barthes, la città immaginaria e utopica di Sade «è interamente fondata sulla parola […] poiché nel romanzo sadiano stesso vi è un altro libro […] un testo di pura scrittura che determina tutto ciò che accade nel
primo»5; ovvero senza le cosiddette “passioni delle novellatrici”, cioè i racconti predisposti per stimolare la fantasia dei libertini, non sussisterebbero le pratiche sessuali, finalizzate proprio al soddisfacimento degli impulsi indotti dalla parola. Sul tema della precedenza della parola rispetto all’atto ci vengono in aiuto le riflessioni
di Jacques Lacan, autore a cui si farà ripetutamente ricorso durante questa analisi, anche perché utile a creare un ponte con la riflessione sul Potere. Di fatto, secondo lo psicoanalista francese, il campo del linguaggio è inteso non come una proprietà dell’uomo, bensì come qualcosa che lo struttura dall’esterno, una rete che lo avvolge, che precede l’essere e determina il soggetto; stando a Lacan, l’essere umano è “fatto di parole” e si sviluppa in un “brodo di
linguaggio” (o come scriveva Heidegger, «il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla»)6. Sappiamo inoltre che per Lacan il linguaggio pertiene al registro simbolico, il cosiddetto Grande Altro. Grazie soprattutto al “ritorno a Lacan” portato avanti in questi anni
da Slavoj Žižek7, il concetto di Grande Altro finisce anche per coincidere con la Legge, l’ordine costituito, la sovrastruttura ideologica intesa in senso marxiano. Nonostante perda di spessore linguistico, è comunque in quest’ottica che la supremazia della parola e dell’ordine simbolico («ciò che è
fatto è stato già detto»)8 assume notevole rilevanza nella rilettura politica pasoliniana di Salò perché, come afferma lo stesso regista, «il potere è sempre codificatore e
rituale»9. La natura liturgica del cerimoniale dei quattro signori, la rigida pianificazione del regolamento che governa la villa, la perversa e grottesca attività oratoria che fa da cornice alle pratiche sadiche (spesso commentate da citazioni e riferimenti a Klossowski, Barthes, Nietzsche e allo stesso Sade) sono elementi tutt’altro che in
conflitto con il concetto di ‘anarchia del Potere’ attorno a cui si fonda l’allegoria pasoliniana. La natura anarchica del Potere risiede proprio in questa messa in scena rituale che sancisce, regolamenta e giustifica la violenza dei forti contro i deboli; essa non è da intendere come mancanza di legge, ma come inclinazione del Potere a darsi da sé le proprie leggi. Il che non significa semplicemente che il Potere agisce nella maniera più utilitaristica; piuttosto,
in maniera ben più sottile, ci dice che, attraverso la manipolazione delle coscienze, il Potere «produce preliminarmente le condizioni affinché possa fare quel che vuole fare, produce la propria stessa legittimità e, ancor più radicalmente produce un’umanità che desidera (facendole credere di desiderare liberamente ndr.) quel che esso stesso vuole
fare».10 L’allegoria proposta da Pasolini è qui particolarmente significativa perché, a differenza di quanto avveniva nel periodo fascista che fa da sfondo al film, il sistema di Potere a lui coevo non agisce attraverso un apparato statale repressivo tradizionale ma si configura come un Potere invisibile, onnipervasivo e
manipolatorio che passa continuamente dall’essere coercitivo all’essere depravato, quasi in ossequio alla logica hegeliana per cui ogni cosa contiene dialetticamente in sé il proprio contrario. Dunque, il libertinismo dei quattro signori si fa metafora esemplare di un Potere che anarchicamente trasforma il perverso e l’eccesso («Tutto è buono quando è eccessivo» dice il Monsignore) in regola e in ideologia (cioè in parola). STRANIAMENTO Il succitato contrasto tra l’oscenità delle pratiche sadiche e la fredda, puntuale ritualità attraverso cui sono messe in atto ha
un equivalente nell’estremo rigore formale della messa in scena. La particolare geografia di Villa Aldini è in tal senso emblematica. Si tratta infatti di un ambiente freddo e asettico, apertamente in contrasto con le attività che vi si svolgono. Volutamente vuoto e minimale, è quasi del tutto privo di mobilia tanto da costringere i giovani a sedere a terra in uno spazio geometrico che sembra contraddire la loro inquieta prossemica. A tale visualità cartesiana fa da contraltare
un registro espressivo che più volte lambisce il grottesco: in particolare nelle figure delle tre narratrici, che ricordano le dive del teatro di rivista o dell’avanspettacolo e di queste replicano i modi, l’abbigliamento nonché il ricorso a barzellette, battute umoristiche e canzonette. Ma il grottesco, sorta di humour macabro, lo si ritrova anche in certi vezzi dei quattro signori: si viene così a creare un continuo sconvolgimento percettivo, un contrasto tra forma e
sostanza (si pensi anche alla scarsa caratterizzazione psicologica delle vittime, che permette allo spettatore di mantenere un distacco tale da stemperare l’insostenibilità della visione), che porta a chiedersi quale possa essere stata l’influenza avuta dalle teorie sullo straniamento di Bertold Brecht, autore poco amato da Pasolini («lo straniamento e il distacco non fanno per me», ebbe a dire in senso critico parlando del credito che
i suoi lavori teatrali Orgia e Porcile devono al drammaturgo tedesco)11. I LIMITI DELLA RAPPRESENTAZIONE La dimensione allegorica di Salò non consiste però in un lavoro di
occultamento o di attenuazione di quanto di sadico, osceno e violento si ritrova nelle pratiche perverse dei quattro signori. Pasolini non lavora per privazione, bensì, attraverso l’algido rigore formale delle sue inquadrature simmetriche, si spinge gradualmente fino ai confini della rappresentabilità della violenza fisica e psicologica, esplorando volutamente i limiti dello sguardo e della sopportabilità dello spettatore. Dunque, nulla è celato all’occhio: coprofagia, torture, omicidi,
corpi usati come oggetti a servizio del godimento e violati di quella giovanile purezza e vitalità che nella precedente Trilogia della vita (Il Decameron [1971], I racconti di Canterbury [1972] e Il fiore delle Mille e una notte [1974]) egli rappresentava proprio attraverso la nudità. E nel suo interrogarsi sul tema della violenza, Pasolini arriva infine egli stesso a travalicare i confini tra l’universo filmico e la realtà. Il lavoro di manipolazione e
di violazione dei corpi dei giovani attori, spesso appena maggiorenni e non professionisti, finisce infatti per sovrapporsi a quello attuato, nella finzione scenica, dai libertini. Come scrive Alberto Brodesco, «per denunciare l’universo dello spettacolo Pasolini è costretto a immergersi in esso. Per servirsi di Sade è costretto a
imitarlo»13. E quando nelle sequenze finali del Girone del sangue si giunge al «colmo del crimine»14, espressione usata da Bataille per descrivere l’atto estremo del libertino
(cioè l’annullamento dell’individuo attraverso la negazione di se stessi), questa sovrapposizione si moltiplica, poiché le particolari dinamiche di sguardo venutesi a creare fanno in modo che il personaggio in campo, il regista e lo spettatore si trovano a occupare tutti e tre il ruolo del voyeur. Tramite la soggettiva del Presidente che attraverso un binocolo guarda compiaciuto le torture compiute nel cortile della villa, i tre sguardi vanno a coincidere e il
culmine della nefandezza diviene, per lo spettatore, anche il limite estremo della tollerabilità. La soggettiva del Presidente LA RIFLESSIONE SOCIOPOLITICA DELL’ULTIMO PASOLINICome già accennato, la natura proibita di
Salò non riguarda solo la potenza quasi intollerabile delle sue immagini: è anche filosofica e politica. Come si può intuire, il conformismo di cui scrive Pasolini non riguarda solamente l’omologazione del modo di pensare o dei desideri ma infetta anche la dimensione fisica e
corporea. E questa manipolazione dei corpi attraverso i codici del conformismo colpisce anche quelli che Pasolini definisce ‘segni monolitici’, cioè i segni che comunicano senza utilizzare il linguaggio verbale. Seppur originariamente sovversivi e propri di una sottocultura all’opposizione17, tali segni
sono stati neutralizzati e assorbiti dal sistema, trasformati anch’essi in significanti impersonali e inoffensivi se non addirittura reazionari. È l’esempio dei capelli lunghi, protagonisti di uno dei più celebri scritti corsari, che da emblema della ribellione giovanile si tramutano in costume; ma lo stesso si potrebbe dire oggi dei tatuaggi o di altri simboli legati originariamente a una qualche sottocultura. Questa neutralizzazione è avvenuta anche perché i giovani corpi esibiti
nei suoi film precedenti in quanto simbolo della vitalità sovversiva delle classi subalterne sono stati ora assorbiti nel ciclo produttivo con la nascita del cosiddetto filone “decamerotico”; cosa che, riflettendo su questa liberalizzazione sessuale, ha spinto Pasolini alla celebre Abiura della Trilogia della
vita18. IL CORPO Il corpo inteso come prodotto culturale, oltre che come unità biologica, è d’altronde un argomento centrale della riflessione pasoliniana e, conseguentemente, della sua produzione artistica (non solo di Salò ma anche dell’incompiuto Petrolio). Secondo il grande scrittore e regista, la manipolazione del corpo compiuta dal potere è molto simile a quella compiuta tempo addietro da Hitler: un approccio al tema del rapporto tra Potere e individuo che ha diversi punti di contatto con le riflessioni sulla biopolitica portate avanti negli stessi anni da Michel Foucault. Pur non mancando divergenze teoriche, sia in merito alle caratteristiche costitutive del Potere (rispetto all’italiano, in Foucault sono assenti il concetto di repressione e la connotazione di classe), sia a proposito dell’individuazione delle reali vittime di tale Potere (la contrapposizione teorica tra il singolo individuo e la popolazione quale blocco unico), gli ‘echi foucaultiani’ in Salò appaiono evidenti nella forzatura allegorica della relazione tra il Potere e il corpo delle vittime. E ce ne danno ulteriore contezza le numerose pagine che il filosofo francese dedica al supplizio e alla tortura del corpo del condannato in Sorvegliare e punire; in particolare quando scrive che «la morte è un supplizio nella misura in cui non è semplicemente privazione del diritto di vivere, ma occasione e termine di una calcolata graduazione di sofferenze […] la morte-supplizio è l’arte di trattenere la vita nella sofferenza, suddividendola in “mille morti”»20. Questa immagine delle mille morti la ritroviamo esplicitamente in una delle più celebri scene di Salò, quando, pur, condannato a morte, il vincitore del concorso del “fondoschiena più bello” viene risparmiato perché, usando le parole del monsignore, «Non lo sai che noi vorremmo ucciderti mille volte, fino ai limiti dell’eternità, se l’eternità potesse avere dei limiti?». Come per l’atto sessuale, infatti, anche nella tortura e nell’omicidio ritroviamo quell’indispensabile carattere di ripetitività eternatrice del gesto che, vedremo meglio tra poco, è il sintomo di una nevrosi del Potere in grado di attivare il meccanismo della coazione a ripetere. JOUISSANCE Come abbiamo già visto, la seconda caratteristica saliente che Pasolini
ravvisa in questo ‘nuovo fascismo’ è il suo non configurarsi come un Potere repressivo, ossia un potere che agisce tramite l’ufficio della proibizione, bensì tollerante, permissivo, che fonda il suo esercizio sulla cultura dell’edonismo sfrenato, della joie de vivre, su una mercificazione del desiderio a servizio del consumo. Pasolini assiste drammaticamente alla nascita della civiltà del piacere e dell’eccesso, sostenuta da una
sovrastruttura ideologica che non vuole più la repressione degli istinti, ma che al contrario basa la sua egemonia sul godimento come Legge. E la libertà sessuale da conquista e potenza trasgressiva diviene quindi una libertà concessa, calata dall’alto, o, meglio ancora, imposta; lo evidenzia quando scrive che «oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di
vita del consumatore» [21]. Aggiungendo che la via della tolleranza e della permissione è secondo il regista la più atroce delle forme di repressione perché, rovesciando la convenzione, egli ritiene che «Là dove tutto è proibito, in realtà si può fare tutto, mentre là dove si può fare qualche cosa, si può fare solo quel
qualcosa»22. L’ECLISSI DEL DESIDERIO / COAZIONE A RIPETERE / DÉPENSE Questa eclissi del desiderio rende di conseguenza impossibile il raggiungimento di un reale piacere. Conseguenza di ciò è la manifestazione di un meccanismo di reiterazione che rimanda alla formulazione freudiana del concetto di coazione a ripetere. In Al di là del principio di piacere25, il grande psicoanalista austriaco ci dice che quest’ultima è strettamente legata alla pulsione di morte e all’eterna e infruttuosa ricerca di un ricongiungimento con la Cosa, ovvero l’oggetto perduto del primo soddisfacimento. In Salò, la coazione a ripetere si rende più che mai evidente nella sfrenata attività perversa dei quattro signori (sia le loro perversioni sessuali, sia, come abbiamo visto, la ripetitività eternatrice delle mille morti), la cui economia fondata sull’eccesso è inoltre un chiaro esempio di quello che Georges Bataille chiama “dispendio improduttivo”. Alla base di questa teoria (in francese dépense) risiede l’idea di rovesciare il principio aristotelico del Bene come fine ultimo dell’uomo, nonché la credenza secondo cui la nostra vita è orientata verso la produzione e la conservazione dei beni con lo scopo dell’utile. Al contrario, sostiene Bataille, l’attività umana è indirizzata verso il dispendio improduttivo delle risorse, lo sperpero e la dilapidazione attraverso il lusso, le guerre, l’attività erotica perversa (cioè non a scopo riproduttivo), ecc. Non a caso, in Salò (vera e propria trasfigurazione di questa teoria), anche all’interno di un contesto comunitario fondato sul dispendio (la villa), Pasolini preferisce, tra le varie pratiche sessuali, mostrare con più frequenza quella sodomitica, poiché tra tutte è la più inutile e infruttuosa, un godimento senza scopo ultimo se non il piacere in sé. Ciò vale naturalmente anche per la tortura e l’omicidio, apici di un’economia fondata sul dispendio e sull’assoluto rovesciamento dei principi dell’etica aristotelica. Sodomia LA MORTE DI DIOSe l’ipermodernità è caratterizzata dall’impossibilità, per l’uomo, di ottenere il reale appagamento dei
propri desideri nonostante l’impegno frenetico a collezionare godimenti effimeri e improduttivi, ciò è dovuto a una contraddittorietà di fondo: da una parte, l’estrema libertà dei costumi (in verità, solo apparente) e, dall’altra, la presenza di un freno, di un limite insuperabile. D’altronde, si è già citato il rovesciamento proposto da Pasolini dell’equazione tolleranza/libertà; come detto, la presunta tolleranza del Potere non è che una forma di
repressione. In Salò, ciò è rappresentato dalla maschera tragica dei quattro signori, le cui predisposizioni libertine li trasformano in veri e propri carnefici. Questa contraddizione è una cifra peculiare della contemporaneità ed è legata a una falsa credenza della ‘morte di Dio’ (tema centrale della modernità e presente anche in Salò). La storia del pensiero ci ha abituato dunque a elaborare il tema del rapporto tra la morte di Dio e la libertà nei termini
dell’equazione di Ivan Karamazov secondo cui «Se Dio non esiste allora tutto è permesso». A detta di Slavoj Žižek, però, la questione è ben più complessa, perché la caduta di un’autorità oppressiva genera in realtà una libertà fasulla e dunque la celebre citazione dostoevskiana andrebbe rovesciata poiché «Quel che caratterizza la modernità non è più la figura tradizionale del credente che nutre in segreto dubbi sulla sua fede e si dedica a fantasie trasgressive;
oggi abbiamo, al contrario, un soggetto che si presenta come un tollerante edonista impegnato nella ricerca della felicità, e il cui inconscio è il luogo delle proibizioni»28 Perciò, sarebbe meglio dire che “se Dio non esiste allora tutto è proibito”, proprio nella misura in cui a essere rimossi (divenendo
quindi istanze inconsce) non sono più i desideri illeciti ma le proibizioni che guastano il godimento. Il massimo paradosso della morte di Dio è quindi che «l’oscena imposizione del Super-io»29 porta nuovi e più severi divieti (la tolleranza è la più atroce delle forme di repressione, diceva Pasolini), privando il soggetto
anche della più bella delle libertà, quella della ribellione. In Salò, però, il tema della morte di Dio presenta un’altra importante sfumatura. Infatti, lasciando assurgere al ruolo di Legge gli ideali della perversione
e del godimento, i quattro signori, pur negando Dio (ad esempio vietando categoricamente ai giovani schiavi di pregare), ambiscono in realtà ad assumerne lo statuto, ossia quello di un Dio che ha un potere assoluto sull’Altro. 1. Antonio Scurati, Dal tragico all’osceno. Raccontare la morte nel XXI Secolo, Milano, Bompiani, 2012, p. 3 2. Roland Barthes, “Sade-Pasolini”, Le Monde, 16 giugno 1976, in Id., Sul Cinema, Genova, Il Melangolo, 1994, p. 159. 3. Intervista per la Televisione Svizzera Italiana, 29 Aprile 1975; successivamente, con il titolo “Il potere e la morte” in Pier Paolo Pasolini, Per il cinema Tomo II, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, p. 3013. 4. Pier Paolo Pasolini, “Il potere senza volto”, «Corriere della sera», 24 Giungo 1974. Poi con il titolo “Il vero fascismo quindi il vero antifascismo” in Id., Scritti Corsari, Milano, Garzanti, 1975, p. 50. 5. Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola (1971), Torino, Einaudi, 2001, pp. 34-35. 6. Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1988, p. 27. 7. Cfr. Slavoj Žižek, Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, Milano, Feltrinelli, 1999. 8. Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola (1971), op. cit., p.35. 9. Intervista per la Televisione Svizzera Italiana, 29 Aprile 1975, op. cit., p. 3014. 10. Stefano Pignataro, “Anarchia del potere e modello di realtà in “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini. Conversazione con Federico Sollazzo, «Sinestesie», n. 15, Aprile 2016. 11. Pier Paolo Pasolini “Il sesso come metafora del potere” (1975), in Per il cinema Tomo II, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, p. 2063. 12. Ibid., p. 2066. 13. Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, Milano, Mimesis Edizioni, 2014, p. 150. 14. George Bataille, L’erotismo (1957), Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1969, p. 96. 15. Pier Paolo Pasolini, “Gli italiani non sono più quelli”, «Corriere della sera», 10 Giugno 1974. Poi con il titolo “Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”, in Scritti Corsari, op. cit., pp. 46-47. 16. Id., “Ampliamento del bozzetto sulla rivoluzione antropologica, «Mondo», 11 Luglio 1974. Poi in Ibid., p. 65. 17. Id., “Contro i capelli lunghi”, «Corriere della sera», 7 Gennaio 1973. Poi con il titolo “Il «discorso» dei capelli” in Ibid., p. 13. 18. Cfr. Id., “Abiura della trilogia della vita”, in Lettere Luterane, Torino, Einaudi, 1976, p. 71. 19. Ibid., p. 72. 20. Michel Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Torino, Einaudi, 1976, p. 37. 21. Pier Paolo Pasolini., “Sono contro l’aborto”, «Corriere della sera», 19 Gennaio 1975. Poi con il titolo “Il coito, l’aborto, la falsa tolleranza del potere” in Ibid., p. 106. 22. Pier Paolo Pasolini, “De Sade e l’universo dei consumi”, in Id., Il cinema in forma di poesia, a cura di L. De Giusti, Pordenone, Cinemazero, 1979. 23. Jacques Lacan, Lacan in Italia, Milano, La Salamandra, 1978, p. 94. 24. Marco Dotti, Recalcati: «Il nostro è un tempo senza memoria. Pasolini lo aveva capito», intervista a Massimo Recalcati, http://www.vita.it/it/article/2017/06/07/recalcati-il-nostro-e-un-tempo-senza-memoria-pasolini-lo-aveva-capito/143650/ 25. Cfr. Sigmund Freud, “Al di là del principio di piacere” (1920), in Opere di Sigmund Freud vol. 9. L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1986. 26. Id., “Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”, in Scritti Corsari, op. cit., p. 44. 27. Id., “Ampliamento del bozzetto sulla rivoluzione antropologica, in Ibid., pp. 64-65. 28. Slavoj Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, p. 265. 29. Ibid., p. 268. 30. Pierre Klossowski, Sade prossimo mio (1947), Milano, Sugar Editore, 1970, p. 46. Cosa succede in Salò di Pasolini?In una sequenza di efferatezze e riti profani, tra torture, sevizie, amputazioni e uccisioni perpetrate sulla base di una sorta di dantesca pena del contrappasso, Signori e collaborazionisti si cimentano in balletti isterici e atti di sesso necrofilo.
Dove è ambientato Salò?Salò
Quanto dura Salò?1h 57mSalò o le 120 giornate di Sodoma / Duratanull
Chi ha scritto le 120 giornate di Sodoma?Marchese de SadeLe 120 giornate di Sodoma / Autorenull
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